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Di Sergio Scamuzzi

Il terzo seminario del ciclo Culture politiche ha affrontato il ruolo dell’ambientalismo nelle istituzioni europee, cercando di comprendere quali siano gli ostacoli e le potenzialità di una sempre più organica legislazione europea in tema ambientale e quale possano essere i ruoli dei movimenti politici locali che, ormai da tempo e con differenti metodi d’azione, si impegnano sui temi del cambiamento climatico e della transizione ecologica.

L’obiettivo principale delle politiche europee per l’ambiente – secondo Enrico Giovannini, professore di statistica economica all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, ex Ministro del lavoro e delle politiche sociali e poi Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e attuale Direttore scientifico dell’ASviS – è creare una sinergia tra lo sviluppo e la sostenibilità ambientale, promuovendo una riconversione dell’economia europea che consenta di produrre benessere anche per le future generazioni e contrastare il cambiamento climatico attraverso l’implementazione di tecnologie. La diffusione di queste innovazioni può, da un lato, produrre investimenti e lavoro, nonché ridurre le disuguaglianze e le spese a carico dei consumatori; dall’altro lato, può favorire l’incremento della competitività europea a livello mondiale.

Una parte del mondo capitalistico, delle imprese e dei governi ha imboccato questa strada, mentre un’altra parte ha recentemente accentuato la sua resistenza a questa forma di cambiamento. Anche nelle agende delle istituzioni internazionali (ONU, G8, UE) il tema dell’ambiente e dell’ambientalismo ha trovato un suo spazio, anche se è importante ricordare come il percorso di affermazione sia stato lungo e controverso.

Per Giovannini, all’interno del quadro europeo, è necessario muoversi verso un’Europa federale per far sì che le sue strutture siano in grado di rispondere alle molteplici dimensioni ed effetti sociali dovuti al perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibili definiti dall’ONU.

Anche secondo Mercedes Bresso – deputata al Parlamento europeo e in già Presidente della Regione Piemonte – il ruolo dell’Unione Europea sarà determinante nell’indirizzare il cambiamento, poiché la legislazione ambientale dei singoli stati è influenzata dalla legislazione europea. Già da molto tempo la legislazione dell’UE è stata una “guida” per i singoli Stati membri. Oggi la complessità degli interventi necessari è sempre più elevata e impegnativa, sia a livello economico che sociale. Un esempio è la gestione dei fiumi e del dissesto idrogeologico, divenuti oggi interventi ancora più necessari dato che il cambiamento climatico aumenta le probabilità di eventi climatici estremi e rende i territori maggiormente vulnerabili.

Nell’ultima legislatura è stato elaborato un ampio disegno legislativo e regolamentare per la riconversione delle attività economiche e la “rinaturalizzazione” dei territori su un continente storicamente influenzato da un alto livello di antropizzazione. Queste iniziative hanno iniziato a influenzare le politiche degli Stati membri, suscitando anche nuove opposizioni politiche e ideologiche che strumentalizzano i disagi derivanti da una comprensione e comunicazione errate di ciò che realmente si intende per transizione. In tal senso, è anche necessario una riforma dei trattati dell’UE che superi i poteri di veto di cui godono gli Stati membri, sempre nella prospettiva di raggiungere un’idea di Europa federale.

Nell’ultimo intervento, Dario Padovan – professore di sociologia dell’ambiente e del cambiamento climatico presso l’Università degli Studi di Torino – ha evidenziato l‘importanza di coinvolgere i movimenti e le associazioni locali nel processo di riconversione dei territori. Questo coinvolgimento è fondamentale poiché può innervare le istituzioni di una maggiore partecipazione dal basso, elemento essenziale per contrastare il diffuso sentimento dei cittadini e delle cittadine di essere abbandonati, “soli” di fronte sia al mercato sia alle misure di transizione promosse dall’alto in modo tecnocratico. Del resto, se la destra negazionista offre risposte apparenti a tale disagio, anche le forze di centro-sinistra non riescono a fornire le adeguate conoscenze in grado di rassicurare la società civile sui benefici e sui cambiamenti necessari per affrontare le inevitabili sfide ambientali. Per far sì che le politiche promosse possano colmare questi malumori ed essere accolte positivamente devono inevitabilmente farsi carico delle disuguaglianze crescenti – dovute anche al cambiamento climatico – e non solo calare dall’alto soluzioni tecnologiche.

L’esperienza delle comunità energetiche può fornire un esempio di un cambiamento che, per l’appunto, parte dal basso e sviluppa competenze e convenienze economiche in direzione di una sostenibilità inclusiva. Sono un esempio utile per riflettere sulla possibile necessità di allontanarsi da una mentalità “industrialista” a favore di una visione post-growth.

Complesse ma cruciali sono le implicazioni della legislazione europea sugli scambi economici internazionali, poiché vincola i partner commerciali non europei al rispetto di requisiti ecologici che potrebbero avere effetti perversi sulle loro economie interne. Simili criticità sono prevedibili e devono essere affrontate con adeguate attenzioni. È altrettanto importante tenere a mente il rischio di greenwashing da parte di imprese e multinazionali incaricate, direttamente o indirettamente, di attuare il piano di transizione energetica ed economica. Le conseguenze negative di simili pratiche subdole hanno ricadute dirette nel patto implicito fra cittadini, cittadine e istituzioni, erodendo progressivamente la fiducia pubblica e politica necessaria per attuare il cambiamento desiderato.

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