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Di Giovanni Borgognone

Nel secondo dopoguerra i paesi capitalistici hanno sperimentato uno dei momenti di maggior crescita economica della storia. Questi trent’anni gloriosi non sono stati solamente il risultato di un’impetuosa crescita economica e tecnologica ma anche della costruzione di un apparato sociale in grado di assorbire gli inevitabili squilibri di uno sviluppo concentrato in pochi anni. È in questo contesto che si parla di “socialdemocrazia” per indicare un modello governativo basato su due grandi assunti: la centralità della politica sociale e l’orientamento verso un’economia mista. Ossia un sistema di regolazione economica e politica che garantisca una quanto più larga offerta di servizi sociali ai cittadini e alle cittadine e un capitalismo avanzato supportato e guidato da una spiccata presenza statale, al fine di perseguire un benessere non solo economico e realmente inclusivo.

Esperienze in cui è possibile ravvisare i prodromi di un simile sistema sono antecedenti agli anni del secondo conflitto mondiale – come la Repubblica di Weimar, gli Stati Uniti di Roosevelt e il Canada – ma è dal 1945 alla fine degli anni Settanta che la socialdemocrazia si afferma compiutamente. In questi paesi, accanto alle “costituzioni formali” delle istituzioni, alle regole del gioco costituzionali, si venne a creare una “costituzione materiale” composta dall’interazione e dall’azione aggregante dei vari corpi intermedi come partiti, sindacati e associazioni. Sull’onda di un nuovo clima culturale si costruì un corpo legislativo capace di realizzare un nuovo ordine istituzionale che imponeva alla forma storica della produzione capitalistica di conformarsi a regole e codici di comportamento estranei alla sua logica.

A partire dalla fine degli anni Settanta la crisi strutturale del capitalismo internazionale, le trasformazioni geopolitiche mondiali e la globalizzazione cambiarono radicalmente il contesto e le capacità d’azione degli Stati-nazione. La “costituzione materiale” cambiò. La concezione socialdemocratica della gestione pubblica venne messa duramente in crisi da chi reputava necessario ridurre l’intervento pubblico nell’economia e “restituire” al mercato quelle funzioni che si ritenevano essere state sottratte: la redistribuzione del reddito prodotto non in base a pianificazioni politiche ma seguendo la “naturale” legge del mercato.

Sono i governi di Margaret Thatcher nel Regno Unito e le presidenze di Ronald Reagan negli Stati Uniti a inaugurare questa nuova stagione politica incentrata sull’idea dell’autoregolazione del mercato e sulla riduzione dello stato sociale. In estrema sintesi, è a questo che ci si riferì quando in quegli anni si iniziò criticamente a parlare di neoliberismo. La spesa pubblica sociale assunse l’accezione di un inutile ingombro e l’economia mista venne interpretata come un’alterazione profonda del capitalismo: non si riteneva più di dover contrastare e correggere il modello capitalistico, bensì si decise di assecondarlo senza riserve. Insieme alle preoccupazioni e alle agende dei governi è cambiato anche l’ethos politico: l’ideale dell’individualismo è subentrato alla precedente adesione ai corpi intermedi, a loro volta programmaticamente depotenziati nel loro ruolo di intermediazione tra stato e cittadini. La cosiddetta “terza via” lanciata da Tony Blair in Gran Bretagna e diffusasi in Europa dagli anni Novanta è stata il risultato di questi cambiamenti nelle culture politiche.

Oggi la democrazia è visibilmente in crisi, e una delle principali cause è da ricercare nelle crescenti disuguaglianze favorite dai precedenti decenni di neoliberismo. La stessa identità socialdemocratica è tramontata per la stessa ragione: per aver perso la bussola dell’eguaglianza sociale e aver lasciato che il ventaglio delle disuguaglianze si dispiegasse senza un adeguato controllo. In questo senso la disuguaglianza è da vedere non solo come conseguenza delle politiche economiche ma anche come più generale sintomo di profondo indebolimento delle strutture di convivenza democratica, di una democrazia sempre meno inclusiva.

Uno degli aspetti più interessanti e sintomo evidente della crisi è il crescente assenteismo elettorale riscontrabile in tutte le democrazie e il connesso declino dei partiti. Da una parte, le odierne strutture democratiche e gli attuali metodi di cattura del consenso da parte dei partiti non riescono ad appassionare e fidelizzare gli elettori e le elettrici; dall’altra, le disuguaglianze e le insoddisfazioni per le recenti politiche allontanano i cittadini e le cittadine dalle istituzioni democratiche, percepite come estranee e disinteressate a rispondere alle loro esigenze.

Un ruolo centrale in queste dinamiche lo ha svolto la mediatizzazione della politica, prima con la personalizzazione della leadership promossa dalla televisione e più recentemente con la sovrabbondanza della comunicazione consentita dai social media. Questo processo ha avuto effetti positivi – permettendo, almeno in linea teorica, un aumento del pluralismo e dell’accesso all’informazione – ma anche profondi effetti negativi per la salute della democrazia. Non è semplice immaginare strategie capaci di contrastare queste tensioni involutive ma possiamo constatare come le democrazie che mantengono strutture sane e inclusive siano quelle dove permane un professionalismo giornalistico supportato da un forte ruolo pubblico dei media indipendente dal potere politico.

Tutto ciò rende necessario ripensare una forma di democrazia inclusiva. Ci si può domandare, in quest’ottica, se le democrazie che meno si sono allontanate dal modello “socialdemocratico”, come quelle dell’Europa settentrionale, non possano costituire ancora un modello a cui ispirarsi, alla ricerca di un nuovo assetto delle democrazie oltre la crisi.

 

Report del secondo incontro del ciclo di seminari Culture politiche, incentrato sulla socialdemocrazia e la crisi del modello democratico.

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